LA CORTE D'APPELLO DI NAPOLI 
                          7ª Sezione Civile 
 
    Nella persona del consigliere  dott.  Danilo  Chieca,  magistrato
designato ai sensi dell'art. 3, comma 4, legge n. 89/2001; 
    Letto il ricorso ex art. 3, comma 1, legge  citata,  proposto  in
data 6 febbraio 2020 da Salvatore Ametrano, nato a  Boscoreale  il  9
settembre 1957, ivi residente alla via Cangiani n.  23/A  (c.f.:  MTR
SVT  57P09  B076E),  rappresentato  e  difeso   dall'avv.   Francesco
Lauretta, giusta procura ad litem in  calce  al  ricorso,  contro  il
Ministero della giustizia, con sede in Roma alla via  Arenula  n.  70
(c.f.: 80184430587), in persona del Ministro pro tempore; 
Rileva: 
    Il ricorrente Salvatore Ametrano ha chiesto la liquidazione di un
indennizzo ex legge n.  89/2001  (c.d.  Legge  Pinto)  per  il  danno
patrimoniale e non patrimoniale sofferto a  causa  dell'irragionevole
durata di un processo penale tuttora pendente a suo carico, in  grado
d'appello, dinanzi a  questa  Corte  (come  si  evince  dall'allegata
certificazione rilasciata in data 6 febbraio  2020  dalla  competente
cancelleria),  nel  quale  e'  gia'  maturato  un  ritardo  tale   da
legittimare la proposizione della domanda. 
    In detto processo - la cui durata al 31 ottobre 2016 non eccedeva
i termini ragionevoli  stabiliti  dall'art.  2,  comma  2-bis,  legge
citata, come si avra' modo di chiarire infra - non risulta presentata
dall'imputato  l'istanza  di  accelerazione  prevista  come   rimedio
preventivo dall'art. 1-ter, comma 2,  della  stessa  legge,  aggiunto
dall'art. 1, comma 777, lettera a), legge n. 208/2015, in vigore  dal
1° gennaio 2016. 
    Una siffatta omissione dovrebbe condurre al diniego  del  diritto
all'indennizzo e alla declaratoria di inammissibilita'  dell'istanza,
in virtu' di quanto disposto dagli articoli 1-bis, comma 2, 2,  comma
1, e  6,  comma  2-bis,  legge  n.  89/2001  -  come  rispettivamente
introdotto e sostituito dall'art. 1, comma  777,  lettere  a)  e  b),
legge n. 208/2015 -, i quali cosi' recitano: 
        «Chi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all'art.
1-ter, ha subito un danno patrimoniale o  non  patrimoniale  a  causa
dell'irragionevole  durata  del  processo  ha  diritto  ad  una  equa
riparazione»; 
        «E' inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal
soggetto che non ha esperito i  rimedi  preventivi  all'irragionevole
durata del processo di cui all'articolo 1-ter»; 
        «Nei processi la cui durata  al  31  ottobre  2016  ecceda  i
termini ragionevoli di cui all'art.  2,  comma  2-bis,  e  in  quelli
assunti in decisione alla stessa data, non  si  applica  il  comma  1
dell'art. 2». 
    Questo   giudice,    tuttavia,    dubita    della    legittimita'
costituzionale degli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, legge  n.
89/2001, in relazione agli articoli 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis,
della stessa legge, innanzi citati. 
    Per tale ragione, con la  presente  ordinanza  solleva  d'ufficio
questione di legittimita' costituzionale, invocando l'intervento  del
giudice delle leggi. 
    A supporto del manifestato dubbio di costituzionalita'  svolge  i
seguenti rilievi, nel rispetto delle prescrizioni dettate  dai  primi
tre commi dell'art. 23, legge n. 87/1953. 
1. Ammissibilita' della questione 
    Prima ancora di procedere all'esame della rilevanza e  della  non
manifesta infondatezza della questione, e' doveroso  evidenziare  che
non sembra potersi dubitare della promovibilita' di un  incidente  di
costituzionalita' nell'ambito della fase sommaria del procedimento di
equa riparazione, il quale, a seguito della  riforma  introdotta  dal
decreto-legge n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla  legge
n. 134/2012,  risulta  attualmente  strutturato  sulla  falsariga  di
quello monitorio disciplinato dal codice di procedura civile. 
    Gia' in passato, infatti, la Consulta ha ritenuto ammissibile  la
questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata  in  sede   di
procedimento per l'emanazione di  un  decreto  ingiuntivo,  rilevando
trattarsi pur sempre di un giudizio (ancorche' in fase sommaria),  la
cui esistenza costituisce, a norma dell'art. 23,  legge  n.  87/1953,
l'unico presupposto oggettivo  di  legittimazione  per  dare  origine
all'incidente  di  costituzionalita'  (cfr.,  in  tal  senso,   Corte
costituzionale n. 128/2008). 
2. Disposizioni della Costituzione che si assumono violate 
    Tanto premesso, gli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma 1,  legge
n. 89/2001 - in combinato disposto con gli articoli 1-ter, comma 2, e
6, comma 2-bis, della stessa legge, nel  testo,  applicabile  ratione
temporis, risultante dalle modifiche  apportate  dall'art.  1,  comma
777, lettere a), b) e m), legge n. 208/2015  -,  sono  sospettati  di
incostituzionalita' per contrasto con  l'art.  117,  comma  1,  della
Costituzione, in relazione agli articoli 6, paragrafo 1, e  13  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali  (CEDU),  costituenti  le   norme   interposte
invocate ad integrazione dell'indicato parametro costituzionale. 
    Si riporta, qui di seguito, il testo delle  disposizioni  che  si
assumono violate: 
        art.  117,  comma  1,  della   Costituzione:   «La   potesta'
legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle  regioni  nel  rispetto
della Costituzione, nonche' dei  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali»; 
        art. 6, paragrafo 1, della CEDU: «Ogni persona ha diritto  ad
un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un
tribunale indipendente e imparziale costituito  per  legge,  al  fine
della determinazione sia dei  suoi  diritti  e  dei  suoi  doveri  di
carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale  che  le
venga rivolta (...)»; 
        art. 13 della CEDU: «Ogni persona i  cui  diritti  e  le  cui
liberta' riconosciuti nella presente Convenzione siano stati  violati
ha diritto a un ricorso effettivo  davanti  a  un'istanza  nazionale,
anche quando la violazione  sia  stata  commessa  da  persone  agenti
nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali». 
3. Rilevanza della questione 
    La prospettata questione di  legittimita'  costituzionale  appare
rilevante per  la  definizione  del  presente  procedimento,  ove  si
consideri che: 
        il giudizio penale presupposto, tuttora pendente in grado  di
appello  dinanzi  a  questa  Corte,  ha  gia'  raggiunto  una  durata
complessivamente superiore al  termine  ragionevole  di  cinque  anni
previsto dall'art. 2, comma 2-bis, legge n. 89/2001 - tre anni per il
primo grado e due anni per il secondo grado  -,  essendosi  protratto
per cinque anni, dieci  mesi  e  dodici  giorni  fino  alla  data  di
deposito del ricorso (6 febbraio 2020), al netto del lasso  di  tempo
intercorso tra il giorno in cui e' iniziato a  decorrere  il  termine
per proporre l'impugnazione avverso la sentenza di primo grado  e  la
proposizione della stessa, secondo quanto previsto dall'art. 2, comma
2-quater, legge citata; 
        non vi sono stati, nel corso dello stesso, eventuali  periodi
di sospensione da scomputare ai sensi  dell'art.  2,  comma  2-quater
teste' citato; 
        per effetto della  sentenza  della  Corte  costituzionale  n.
88/2018, la domanda di equa riparazione  deve  ritenersi  proponibile
anche in pendenza del procedimento presupposto, una volta maturato il
ritardo rilevante ai fini della legge Pinto; 
        nel nostro caso, il ritardo gia' accumulatosi sino alla  data
di proposizione del ricorso ex art. 3, comma 1, legge n. 89/2001 - da
determinare sulla scorta di una valutazione sintetica  e  complessiva
del processo presupposto nella sua unitaria articolazione  (cfr.,  ex
multis,  Cass.  n.  19938/2016,  Cass.  n.  19854/2015  e  Cass.   n.
14786/2013) - risulta pari a dieci mesi e dodici giorni,  e  pertanto
eccede il periodo minimo  di  sei  mesi  riconosciuto  indennizzabile
dall'art. 2-bis, comma 1, legge citata; 
        per costante  orientamento  giurisprudenziale  della  Suprema
Corte di Cassazione, consolidatosi come diritto vivente, posto che il
danno  non  patrimoniale  e'  conseguenza  normale,   ancorche'   non
automatica  e  necessaria,  della   violazione   del   diritto   alla
ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 6 CEDU, una  volta
accertata e determinata l'entita' della detta violazione, il  giudice
deve ritenere sussistente il pregiudizio, a meno che  ricorrano,  nel
caso concreto, circostanze particolari  che  inducano  ad  escluderne
l'esistenza  (cfr.,  ex  multis,  Cass.  n.  26497/2019,   Cass.   n.
24696/2011 e Cass. n. 8630/2010); 
        nella fattispecie in esame, non ricorre alcuna delle  ipotesi
di esclusione del diritto all'indennizzo o di presunta  insussistenza
del pregiudizio da  irragionevole  durata  del  processo  contemplate
dall'art. 2,  commi  2-quinquies,  2-sexies  e  2-septies,  legge  n.
89/2001; in particolare, avuto riguardo alle situazioni  che  possono
interessare l'imputato in un processo penale, va notato che: 
          a) l'Ametrano non risulta aver in alcun  modo  abusato  dei
poteri  processuali  attribuitigli  dalla  legge,   allo   scopo   di
determinare un'ingiustificata dilazione dei tempi del giudizio; 
          b)  non   e'   stata   pronunciata   nei   suoi   confronti
dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato; 
          c) il sunnominato non e' rimasto contumace, ne'  in  primo,
ne' in secondo grado; 
          d) per effetto dell'irragionevole durata del processo  egli
non ha conseguito vantaggi patrimoniali eguali  o  maggiori  rispetto
alla misura dell'indennizzo altrimenti dovutogli; 
          e) deve escludersi  l'«irrisorieta'  della  pretesa  o  del
valore della causa», giacche, per un verso, la violazione del termine
ragionevole, per il momento, gia' eccede di  oltre  quattro  mesi  la
durata minima del ritardo ritenuta indennizzabile  dalla  legge  (sei
mesi), per altro verso, non puo' ritenersi esigua la posta  in  gioco
nel  processo  presupposto,  ne'  tantomeno  trascurabili  i   rischi
sostanziali e processuali connessi, atteso che il giudizio  di  primo
grado si e' concluso con  la  condanna  dell'imputato  alla  pena  di
quattro mesi di reclusione e di cinquecento euro di multa  e  che  il
giudizio   d'appello   non   e'   stato   ancora   celebrato   (cfr.,
sull'argomento, Cass. n. 26497/2019 e Cass. n. 633/2014, nonche', con
specifico riferimento al processo penale, Cass. n. 26630/2016 [ord.],
in  cui   trovasi   affermato   che,   persino   dopo   l'assoluzione
dell'imputato in primo grado, «il protrarsi del processo in grado  di
appello, a seguito dell'impugnazione da parte di costui, non consente
di  affermare  che  il  giudizio...  rivesta   ormai   un   carattere
bagatellare o che la posta in gioco sia del tutto  irrilevante,  tale
da far perdere all'imputato ogni concreto interesse»); 
        nemmeno si ravvisano altre peculiari circostanze che  possano
indurre a ritenere insussistente, nello specifico caso che ci occupa,
il danno non patrimoniale normalmente risentito da qualsiasi  persona
a causa dell'irragionevole durata di un processo che la riguarda; 
        in definitiva, appaiono sussistenti i requisiti di fondatezza
della domanda  avanzata  dal  ricorrente,  quantomeno  per  la  parte
relativa al  danno  non  patrimoniale  da  irragionevole  durata  del
processo; 
        sennonche', a  norma  dell'art.  1-bis,  comma  2,  legge  n.
89/2001, introdotto dall'art. 1, comma  777,  lettera  a),  legge  n.
208/2015, il diritto ad una equa riparazione puo' essere riconosciuto
soltanto in favore di chi, «pur avendo esperito i  rimedi  preventivi
di cui  all'art.  1-ter,  ha  subito  un  danno  patrimoniale  o  non
patrimoniale  a  causa  dell'irragionevole  durata   del   processo»;
inoltre, ai sensi dell'art.  2,  comma  1,  legge  n.  89/2001,  come
sostituito dall'art. 1, comma 777, lettera b), legge n. 208/2015, «e'
inammissibile la domanda di equa riparazione  proposta  dal  soggetto
che non ha esperito i rimedi preventivi all'irragionevole durata  del
processo di cui all'articolo 1-ter»; 
        in base al  secondo  comma  dell'art.  1-ter,  legge  citata,
richiamato dagli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, della  stessa
legge, il rimedio preventivo esperibile dall'imputato e  dalle  altre
parti del processo penale consiste  nel  deposito  di  un'istanza  di
accelerazione, da effettuarsi personalmente o a mezzo di  procuratore
speciale  almeno  sei  mesi  prima  che  siano  trascorsi  i  termini
ragionevoli di cui al successivo art. 2, comma 2-bis; 
        l'odierno ricorrente non si e' curato di depositare, nei modi
e nei termini previsti, alcuna istanza acceleratoria; ne' tanto hanno
provveduto le altre parti del processo penale presupposto; 
        al 31 ottobre 2016 la durata del suddetto processo non ancora
eccedeva  i  termini  ragionevoli  innanzi  indicati,  in  quanto  il
giudizio di primo grado si era prolungato per due anni, cinque mesi e
diciassette giorni - dal 26 marzo 2014 (allorche' l'Ametrano, come da
lui stesso indicato in ricorso, acquisi' conoscenza del  procedimento
pendente a suo carico, ricevendo la notificazione del decreto  penale
di condanna n.  1292/2013  del  21  ottobre  2013,  emesso  nei  suoi
confronti dal G.I.P. del Tribunale di Torre Annunziata, su  richiesta
del pubblico ministero, per il reato di cui agli articoli 570,  comma
2, n. 2, codice penale, 12-sexies, comma 1, legge  n.  898/1970  e  3
legge n. 54/2006: cfr. art. 2, comma 2-bis,  legge  n.  89/2001,  nel
testo  risultante  dalla  sentenza  della  Corte  costituzionale   n.
184/2015) al 12 settembre 2016 (data di deposito  della  sentenza  di
condanna n. 2783/2016 pronunciata dal Tribunale di Torre Annunziata),
mentre quello di secondo grado si era protratto fino ad allora per un
mese e quindici giorni (assumendo come dies a  quo  la  data  del  16
settembre 2016, in cui il difensore dell'imputato deposito' l'atto di
appello presso la cancelleria del Tribunale oplontino), senza  essere
stato assunto in decisione; 
        conseguentemente, non puo' ritenersi operante,  nel  caso  di
specie, la norma transitoria  contenuta  nell'art.  6,  comma  2-bis,
legge citata,  in  forza  della  quale  la  disposizione  recata  dal
precedente art. 2, comma 1, non  si  applica  «nei  processi  la  cui
durata al 31  ottobre  2016  ecceda  i  termini  ragionevoli  di  cui
all'art. 2, comma 2-bis, e in quelli assunti in decisione alla stessa
data»; anzi, proprio da tale norma  si  ricava,  indirettamente,  che
l'inciso «pur avendo esperito i rimedi  preventivi  di  cui  all'art.
1-ter», inserito nell'art. 1-bis, comma 2, della legge Pinto, e cosi'
pure  la  sanzione  di  inammissibilita'  della   domanda   di   equa
riparazione comminata dall'art. 2, comma 1,  della  stessa  legge  in
caso di mancato esperimento dei rimedi  preventivi  di  cui  all'art.
1-ter, si riferiscono ai soli processi la cui durata  al  31  ottobre
2016 non ecceda i termini ragionevoli e che non  ancora  siano  stati
assunti in decisione alla stessa data, come,  per  l'appunto,  quello
che ci occupa. 
    Alla  stregua  delle  esposte  considerazioni,  appare,   quindi,
evidente come il presente  procedimento  non  possa  essere  definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
costituzionale degli articoli 1-bis, comma 2, e  2,  comma  1,  della
legge Pinto, in combinato disposto con gli articoli 1-ter, comma 2, e
6, comma 2-bis, della  stessa  legge,  giacche  l'applicazione  delle
predette norme imporrebbe a questo giudice di negare  il  diritto  ad
una equa riparazione fatto valere  dal  ricorrente  e  di  dichiarare
inammissibile la domanda dallo stesso proposta; domanda che andrebbe,
invece, accolta, con conseguente riconoscimento del vantato  diritto,
ove il manifestato dubbio di costituzionalita' fosse ritenuto fondato
dalla Consulta. 
4. Non manifesta infondatezza della questione 
    Riguardo, poi, al presupposto della  non  manifesta  infondatezza
della questione, va osservato che, nel quadro  normativo  antecedente
alle modifiche apportate dalla legge n.  208/2015,  l'art.  2,  comma
2-quinquies, lettera e), legge n.  89/2001  (inserito  dall'art.  55,
comma 1, lettera a), n. 2), decreto-legge n. 83/2012, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 134/2012) gia' negava il diritto ad una
equa riparazione all'imputato che non avesse «depositato  istanza  di
accelerazione del processo penale nei  trenta  giorni  successivi  al
superamento dei termini di cui all'art. 2-bis». 
    Detta norma e' stata  dichiarata  costituzionalmente  illegittima
dalla Corte costituzionale con sentenza n.  169/2019,  per  contrasto
con l'art. 117,  comma  1,  della  Costituzione,  in  relazione  agli
articoli 6, paragrafo 1, e 13 CEDU. 
    In tale  pronuncia,  ribadendo  le  considerazioni  svolte  nella
precedente sentenza n. 34/2019 - con la quale  era  stata  dichiarata
l'illegittimita' costituzionale dell'art 54, comma  2,  decreto-legge
n. 112/2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n.  133/2008,
come modificato dall'art. 3, comma 23,  dell'allegato  4  al  decreto
legislativo n. 104/2010 e dall'art. 1, comma 3,  decreto  legislativo
n. 195/2011, nella parte in cui  escludeva  la  proponibilita'  della
domanda di  equo  indennizzo  per  l'eccessiva  durata  del  giudizio
amministrativo, se non fosse stata presentata l'istanza  di  prelievo
di cui all'art. 71, comma 2, del codice del  processo  amministrativo
-, il giudice delle leggi ha rilevato, per quanto qui particolarmente
interessa: 
        che, per costante  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo (e in particolare alla luce delle sentenze 2 giugno
2009, Daddi contro Italia, e  22  febbraio  2016,  Olivieri  e  altri
contro Italia, nonche' della sentenza della Grande  camera  29  marzo
2006, Scordino contro Italia), «i rimedi preventivi, volti ad evitare
che la durata del procedimento  diventi  eccessivamente  lunga,  sono
ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione
con quelli indennitari, ma solo se "effettivi" e, cioe',  solo  se  e
nella misura in cui velocizzino la decisione  da  parte  del  giudice
competente; alternativamente alla durata ragionevole del processo, il
rimedio interno deve comunque allora garantire l'adeguata riparazione
della violazione del precetto convenzionale»»; 
        che l'istanza di accelerazione  da  presentare  nel  processo
penale presupposto, ai sensi del predetto art. 2, comma  2-quinquies,
lettera e), legge  n.  89/2001,  «non  diversamente  dall'istanza  di
prelievo  nel  processo   amministrativo,   non   costituisce...   un
adempimento necessario, ma una mera facolta' dell'imputato, e non  ha
- cio' che e' comunque di per se' decisivo - efficacia effettivamente
acceleratoria del processo, atteso che questo, pur a  fronte  di  una
siffatta istanza, puo'  comunque  proseguire  e  protrarsi  oltre  il
termine di sua ragionevole durata, senza che la violazione  di  detto
termine  possa   addebitarsi   ad   esclusiva   responsabilita'   del
ricorrente»; 
        che «la mancata presentazione dell'istanza  di  accelerazione
nel processo presupposto puo' eventualmente  assumere  rilievo  (come
indice di sopravvenuta  carenza  o  non  serieta'  dell'interesse  al
processo del richiedente) ai fini della  determinazione  del  quantum
dell'indennizzo ex legge n. 89 del 2001, ma non puo' condizionare  la
stessa proponibilita'  della  correlativa  domanda,  senza  con  cio'
venire in contrasto  con  l'esigenza  del  giusto  processo,  per  il
profilo della sua ragionevole durata, e con il diritto ad un  ricorso
effettivo, garantiti dagli evocati parametri  convenzionali,  la  cui
violazione comporta, appunto, per  interposizione,  quella  dell'art.
117, primo comma, della Costituzione». 
    Ora, proprio le surriportate argomentazioni fanno dubitare  della
legittimita' costituzionale degli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma
1, legge n. 89/2001, entrambi in relazione all'art. 1-ter,  comma  2,
della stessa legge - nel testo risultante a seguito  delle  modifiche
apportate dall'art. 1, comma 777, lettere a) e b), legge n.  208/2015
-, applicabili ratione temporis alla fattispecie  in  esame,  tuttora
ravvisandosi  il  contrasto  con   l'art.   117,   comma   1,   della
Costituzione, in relazione agli articoli 6, paragrafo 1, e  13  CEDU,
che ha gia' indotto la Corte costituzionale, con le  citate  sentenze
numeri  34/2019   e   169/2019,   a   dichiarare   costituzionalmente
illegittimo dapprima l'art. 54, comma 2, decreto-legge  n.  112/2008,
convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge  n.   133/2008   (come
modificato  dall'art.  3,  comma  23,  dell'allegato  4  al   decreto
legislativo  n.  104/2010  e  dall'art.  1,  comma  3,  del   decreto
legislativo n. 195/2011), e poi l'art. 2, comma 2-quinquies,  lettera
e), legge n. 89/2001 (inserito dall'art. 55, comma 1, lettera  a,  n.
2, decreto-legge n. 83/2012,  convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge n. 134/2012). 
    Invero, nel perdurante difetto della  previsione  legislativa  di
specifici strumenti, anche di tipo ordinamentale, volti  a  garantire
che al deposito dell'istanza di accelerazione di cui all'art.  1-ter,
comma 2, legge citata, ad opera dell'imputato o di  una  delle  altre
parti del giudizio penale,  corrisponda  effettivamente  una  diversa
considerazione della vicenda processuale, tale da assicurarne, almeno
tendenzialmente, la definizione entro il termine ragionevole  fissato
dall'art. 2, comma 2-bis, della stessa legge, le  norme  in  discorso
finiscono per risolversi - al pari delle analoghe  disposizioni  gia'
colpite da dichiarazione di incostituzionalita' - nell'imposizione di
un inutile adempimento formale  con  effetto  di  mera  «prenotazione
della decisione» (la quale puo' comunque intervenire oltre il termine
di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio) e di pura  e
semplice manifestazione di un interesse gia' altrimenti presente  nel
processo e avente copertura costituzionale (ex  art.  111,  comma  2,
della Costituzione). 
    Deve,  allora,  ritenersi  che  nell'attuale  contesto  normativo
l'istanza  di  accelerazione  del  processo  penale  continui  a  non
rappresentare un rimedio  preventivo  effettivamente  sollecitatorio,
nei termini precisati dalla giurisprudenza della Corte EDU richiamata
nelle  summenzionate  sentenze  della  Corte  costituzionale   numeri
34/2019 e  169/2019,  tanto  piu'  ove  si  consideri  che,  a  mente
dell'art. 1-ter,  comma  7,  legge  n.  89/2001,  anche  in  caso  di
esperimento dei rimedi contemplati dallo  stesso  articolo,  «restano
ferme le disposizioni che determinano  l'ordine  di  priorita'  nella
trattazione dei procedimenti». 
    E' pur  vero  che  l'art.  1-ter,  comma  2,  legge  n.  89/2001,
disponendo  che   l'istanza   di   accelerazione   venga   presentata
dall'imputato e dalle altre parti del processo penale con anticipo di
almeno sei mesi rispetto alla scadenza dei termini fissati  dall'art.
2, comma 2-bis, pone a carico degli stessi un onere di diligenza piu'
incisivo di  quello  prescritto  (peraltro  nei  confronti  del  solo
imputato) dalla  previgente  previsione  di  cui  all'art.  2,  comma
2-quinquies,   lettera   e),    legge    citata,    poi    dichiarata
incostituzionale, la quale, invece, stabiliva che il deposito di tale
istanza dovesse essere effettuato dopo il gia'  avvenuto  superamento
dei predetti termini (precisamente nei trenta giorni successivi). 
    Cio' non  toglie,  pero',  che  il  rimedio  in  parola,  sebbene
attualmente prefigurato come «preventivo», non  possa  essere  ancora
oggi ritenuto «effettivo», ai  sensi  dell'art.  13  della  CEDU,  in
quanto, anche a seguito  della  novella  ex  legge  n.  208/2015,  il
sistema  giuridico  nazionale  continua  a   non   prevedere   alcuna
condizione  tesa  a  garantire  il  sollecito  esame  e  il  positivo
riscontro dell'istanza di accelerazione, ne' tantomeno a  predisporre
idonee misure finalizzate a velocizzare la  decisione  da  parte  del
giudice al quale  una  siffatta  istanza  sia  stata  tempestivamente
rivolta. 
    Peraltro, gli insuperabili limiti letterali degli articoli 1-bis,
comma 2, e 2, comma 1, legge citata, non lasciano spazio a  possibili
interpretazioni convenzionalmente orientate,  che  non  si  traducano
nella  sostanziale  disapplicazione   delle   norme   sospettate   di
illegittimita'   costituzionale    (cfr.,    sull'argomento,    Corte
costituzionale n. 109/2017: «Nell'attivita'  interpretativa  che  gli
spetta ai sensi dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione,  il
giudice comune ha il dovere di evitare violazioni  della  CEDU  e  di
applicarne le  disposizioni,  sulla  base  dei  principi  di  diritto
espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia  riconducibile  a
precedenti  decisioni  di  quest'ultima.  In  tale   attivita'   egli
incontra, tuttavia,  il  limite  costituito  dalla  presenza  di  una
legislazione interna di contenuto contrario alla CEDU: in un caso del
genere - verificata  l'impraticabilita'  di  una  interpretazione  in
senso convenzionalmente conforme, e non potendo disapplicare la norma
interna, ne' farne applicazione, avendola ritenuta in  contrasto  con
la Convenzione e,  pertanto,  con  l'art.  117,  primo  comma,  della
Costituzione   -   deve   sollevare   questione    di    legittimita'
costituzionale della norma interna, per violazione di tale  parametro
costituzionale»; id., ex plurimis, Corte costituzionale n.  150/2015,
Corte costituzionale n. 264/2012, Corte costituzionale  n.  113/2011,
Corte costituzionale n. 93/2010 e Corte costituzionale  n.  311/2009;
vedasi pure Corte costituzionale n. 349/2007, secondo cui «il giudice
comune ha l'obbligo di interpretare la norma interna in modo conforme
alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali  cio'  sia
permesso dai testi delle norme»). 
    Non rimane,  quindi,  che  investire  della  questione  la  Corte
costituzionale. 
    A mente dell'art. 23, comma 2,  legge  n.  87/1953,  va  disposta
l'immediata trasmissione degli atti alla detta Corte, con contestuale
declaratoria di sospensione del presente procedimento. 
    La cancelleria curera' gli adempimenti di  cui  all'ultimo  comma
dello stesso articolo, come precisati in dispositivo.